Una vita vissuta nell’ombra
Breve biografia del faccendiere dalle molte amicizie oscure
di Mauro Bottarelli
La vita di Flavio Carboni è sempre stata all’insegna del pericolo e della spregiudicatezza. Sempre in equilibrio precario su quel sottile trapezio che divide la finanza corsara dal malaffare vero e proprio, la carriera di Carboni comincia all’inizio degli anni ’70 e prosegue attraversando le pagine più buie dell’Italia spaventata e misteriosa degli anni di piombo.
Una straordinaria ricostruzione della nascita e dell’ascesa di Flavio Carboni è contenuta nel libro di Gianni Flamini "La banda della Magliana" edito dalla Kaos edizioni, da cui prenderemo spunto per ricostruirne sommariamente le gesta. Ex impiegato della pubblica istruzione, ex imprenditore discografico, Flavio Carboni si era improvvisato speculatore nel settore dei terreni edificabili e delle costruzioni. La sua "abilità" affaristica era andata a scontrarsi contro un muro di protesti cambiari e la necessità di disporre di ingenti capitali per i suoi traffici speculativi portò Carboni nel giro degli usurai romani, mondo in cui fu introdotto da Oberdan Spurio, gestore di un vero e proprio sportello bancario all’interno della bottega di Campo de’ Fiori di Domenico Balducci, malavitoso e usuraio meglio conosciuto come Mimmo il Caravattaro. Attraverso la conoscenza di Spurio e Danilo Sbarra (anch’egli usuraio ma ufficialmente imprenditore edile)Carboni arrivò a Balducci con credenziali tutt’altro che prive di interesse per un uomo come Mimmo il Carvattaro: oltre ad essere in ottimi rapporti con alti prelati vaticani e con dirigenti democristiani come Benito Cazora, Clelio Derida e Mauro Bubbico, Carboni era anche socio del trafficante italo-svizzero Fiorenzo Ravello che in qualità di amministratore fiduciario di grandi patrimoni sporchi gode di prestigio e autorevolezza internazionale. Attraverso questa importante conoscenza Carboni si assicurò la stima di Balducci ma soprattutto del potente boss mafioso Pippo Calò. Ma Carboni come abbiamo già anticipato non è soltanto un malavitoso in senso generale, è anche direttamente legato alle operazioni di quella holding politico-criminale meglio conosciuta come Banda della Magliana, a sua volta in affari con la loggia massonica P2, Cosa Nostra e neofascisti. E proprio all’interno di questo intreccio spaventoso Carboni divenne protagonista di due delle pagine più oscure e oggi più che mai attuali della storia italiana: il rapimento e l’omicidio del presidente Dc Aldo Moro e il legame con il faccendiere Francesco Pazienza all’ombra della scalata e del "suicidio" Calvi, l’uomo del crack del Banco Ambrosiano. Partiamo dal caso Moro. Stando alle dichiarazione del pentito Buscetta, Pippo Calò si sarebbe opposto ai tentativi di intervento mafioso per salvare Moro poichè "(Calò) aveva un partito tutto suo che non voleva Moro libero". Flavio Carboni intervenne sul palcoscenico del sequestro per una vicenda affaristica denominata "operazione Siracusa" e che consisteva nella realizzazione di un porto turistico per la città siciliana e nella ristrutturazione del centro storico di Ortigia. Gli agganci politici in Sicilia a Carboni non mancavano certo, mancavano però 450 milioni di lire. Fu proprio l’usuraio Balducci ha fornire il denaro necessario a Carboni: denaro che arrivava "dal signor Mario, personaggio che godo fama di facoltoso e affermato imprenditore, uomo di squisita cortesia e di pochissime parole abitanet a Roma sulla via Aurelia". Il "signor Mario", in verità, era Pippo Calò in persona che metteva a disposizione dell’intraprendente faccendiere 450 milioni in contanti. Ora a Carboni mancava solo l’assenso degli amministratori regionali. E proprio a questo punto che il faccendiere decide di mettere a frutto i suoi contatti palermitani per intervenire sul caso Moro, sperando di ingraziarsi così il potere politico. Carboni decise così di rivolgersi all’amico Benito Cazora, deputato democristiano che all’epoca era già all’opera all’interno della Democrazia Cristiana per ottenere appoggi finanziari tali da attivare un grande boss della mafia calabrese che avrebbe avuto contatti importanti per garantire la liberazione di Moro". Carboni assicurò a Cazora di aver conosciuto un esponente della mafia internazionale dal quale sperava di avere informazioni utili alla liberazione del presidente Dc: inoltre, dovendo recarsi a Palermo per l’affare "Siracusa" avrebbe cercato di mettersi in contatto con esponenti di Cosa Nostra. Al colloquio tra Carboni e Cazora era presente anche il giornalista parlamentare Giuseppe Messina ed è proprio a Messina che qualche giorno più tardi Carboni comunicò il fallimento della sua "missione": "La dirigenza della mafia non vuole occuparsi del caso Moro. Posso solo dare un’interpretazione del rifiuto: la mafia è molto anticomunista e Moro è indicato come persona molto favorevole al governo con i comunisti". Come sia terminato il sequestro Moro purtroppo lo sappiamo tutti, i risvolti più nascosti di quel delitto restano invece avvolti nel più sordido mistero. Un’altro capitolo oscuro della lunga vita "professionale" di Carboni è quello che lo vede legato al faccendiere Francesco Pazienza.Quest’ultimo nell’autunno del 1980, grazie ad un’abile tessitura di rapporti occulti, costituì la società Ascofin, che in base alle testimonianza delle stesso Pazienza serviva "inizialmente da copertura delle mie in nome e per conto del Sismi". Solo "inizialmente" perchè poi "si tratterà essenzialmente di affari". Sulla piazza romana i maneggi affaristici di Pazienza procedevano a gonfie vele sopreattutto dopo che il vice-questore Pompò gli presente Flavio Carboni. Fra i due, nemmo a dirlo, si creò un’intesa immediata. Interessanti per capire gli sviluppi futuri del rapporto sono però le parole che Carboni disse al giudice istruttore di Roma: "Per come mi venne detto Pazienza era un uomo dalle molteplici attività e dalle notevoli entrature nei più svariati ambienti, così che non ebbi difficoltà a credere che si sarebbe assunto l’incarico di promuovere le mie attività all’estero, specialmente negli Stati Uniti. Ben presto, tuttavia, dovetti constatare l’inaffidabilità di Pazienza, interlocutore che sfuggiva alle richieste prendendo tempo e mancando a tutti gli appuntamenti che per me erano importanti". Parole dure a cui però non fecero seguito tracce oggettive nel momento in cui i due personaggi si ritrovarono alla corte del banchiere piduista Roberto Calvi, proprio nel momento in cui Carboni - a suo dire - vedeva sfumare un affare in Sardegna, dove la costituzione di una società con l’imprenditore Silvio Berlusconi per la realizzazione di un complesso edilizio fallì a causa del coinvolgimento di Berlusconi "nella vicenda relativa alla P2". Nel frattempo, però, Carboni (operando nell’ambito di "un programma d’acquisto, da parte mia ma per conto di Silvio Berlusconi, di una rete televisiva sarda") aveva anche allacciato buoni rapporti con Armando Corona, presidente della Regione Sardegna e massone di alto rango. Un nome, quello di Corona, che il faccendiere sardo annoterà sul proprio "diario privato", insieme ai "finaziatori" Enrico Nicoletti, Gino De Giorgi e Fausto Annibaldi, tutti e tre noti malavitosi. E, quasi a voler sancire in maniera quasi rituale con Pazienza, Carboni presentò al braccio destro del generale Santovito - capo del Sismi - e al sempre presente vice-questore Pompò la vecchia conoscenza Domenico Balducci. Queste le più eclatanti avventure di Flavio Carboni, a cui potremmo aggiungere mille altri episodi non ultimo quello riguardante i 750 milioni in buoni del Tesoro di provenienza illecita che Ernesto Diotallevi consegnò a Carboni in una busta nell’aprile 1982 nel tentativo di risollevare le sorti di un Calvi ormai prossimo al collasso. Ma la vita di carboni meriterebbe una biografia di almeno mille pagine. Pagine che potrebbe aiutare molti comuni mortali a capire i retroscena di una stagione politico-economico-criminale mai definitivamente chiusa. Ma anche intrecci che vedevano fianco a fianco massoni, spezzoni deviati dei servizi segreti, malavita organizzata ed eversione neofascista la cui eredità è giunta a noi tanto vivida e presenta quanto drammaticamente "silenziata". Un’altra avventura è finita, ma Flavio Carboni ha sette vite e di lui si tornerà a parlare ancora. Statene certi.
http://209.85.135.104/search?q=cache:74Lek-v0oNIJ:old.lapadania.com/1999/ottobre/14/141099p03a3.htm
Una straordinaria ricostruzione della nascita e dell’ascesa di Flavio Carboni è contenuta nel libro di Gianni Flamini "La banda della Magliana" edito dalla Kaos edizioni, da cui prenderemo spunto per ricostruirne sommariamente le gesta. Ex impiegato della pubblica istruzione, ex imprenditore discografico, Flavio Carboni si era improvvisato speculatore nel settore dei terreni edificabili e delle costruzioni. La sua "abilità" affaristica era andata a scontrarsi contro un muro di protesti cambiari e la necessità di disporre di ingenti capitali per i suoi traffici speculativi portò Carboni nel giro degli usurai romani, mondo in cui fu introdotto da Oberdan Spurio, gestore di un vero e proprio sportello bancario all’interno della bottega di Campo de’ Fiori di Domenico Balducci, malavitoso e usuraio meglio conosciuto come Mimmo il Caravattaro. Attraverso la conoscenza di Spurio e Danilo Sbarra (anch’egli usuraio ma ufficialmente imprenditore edile)Carboni arrivò a Balducci con credenziali tutt’altro che prive di interesse per un uomo come Mimmo il Carvattaro: oltre ad essere in ottimi rapporti con alti prelati vaticani e con dirigenti democristiani come Benito Cazora, Clelio Derida e Mauro Bubbico, Carboni era anche socio del trafficante italo-svizzero Fiorenzo Ravello che in qualità di amministratore fiduciario di grandi patrimoni sporchi gode di prestigio e autorevolezza internazionale. Attraverso questa importante conoscenza Carboni si assicurò la stima di Balducci ma soprattutto del potente boss mafioso Pippo Calò. Ma Carboni come abbiamo già anticipato non è soltanto un malavitoso in senso generale, è anche direttamente legato alle operazioni di quella holding politico-criminale meglio conosciuta come Banda della Magliana, a sua volta in affari con la loggia massonica P2, Cosa Nostra e neofascisti. E proprio all’interno di questo intreccio spaventoso Carboni divenne protagonista di due delle pagine più oscure e oggi più che mai attuali della storia italiana: il rapimento e l’omicidio del presidente Dc Aldo Moro e il legame con il faccendiere Francesco Pazienza all’ombra della scalata e del "suicidio" Calvi, l’uomo del crack del Banco Ambrosiano. Partiamo dal caso Moro. Stando alle dichiarazione del pentito Buscetta, Pippo Calò si sarebbe opposto ai tentativi di intervento mafioso per salvare Moro poichè "(Calò) aveva un partito tutto suo che non voleva Moro libero". Flavio Carboni intervenne sul palcoscenico del sequestro per una vicenda affaristica denominata "operazione Siracusa" e che consisteva nella realizzazione di un porto turistico per la città siciliana e nella ristrutturazione del centro storico di Ortigia. Gli agganci politici in Sicilia a Carboni non mancavano certo, mancavano però 450 milioni di lire. Fu proprio l’usuraio Balducci ha fornire il denaro necessario a Carboni: denaro che arrivava "dal signor Mario, personaggio che godo fama di facoltoso e affermato imprenditore, uomo di squisita cortesia e di pochissime parole abitanet a Roma sulla via Aurelia". Il "signor Mario", in verità, era Pippo Calò in persona che metteva a disposizione dell’intraprendente faccendiere 450 milioni in contanti. Ora a Carboni mancava solo l’assenso degli amministratori regionali. E proprio a questo punto che il faccendiere decide di mettere a frutto i suoi contatti palermitani per intervenire sul caso Moro, sperando di ingraziarsi così il potere politico. Carboni decise così di rivolgersi all’amico Benito Cazora, deputato democristiano che all’epoca era già all’opera all’interno della Democrazia Cristiana per ottenere appoggi finanziari tali da attivare un grande boss della mafia calabrese che avrebbe avuto contatti importanti per garantire la liberazione di Moro". Carboni assicurò a Cazora di aver conosciuto un esponente della mafia internazionale dal quale sperava di avere informazioni utili alla liberazione del presidente Dc: inoltre, dovendo recarsi a Palermo per l’affare "Siracusa" avrebbe cercato di mettersi in contatto con esponenti di Cosa Nostra. Al colloquio tra Carboni e Cazora era presente anche il giornalista parlamentare Giuseppe Messina ed è proprio a Messina che qualche giorno più tardi Carboni comunicò il fallimento della sua "missione": "La dirigenza della mafia non vuole occuparsi del caso Moro. Posso solo dare un’interpretazione del rifiuto: la mafia è molto anticomunista e Moro è indicato come persona molto favorevole al governo con i comunisti". Come sia terminato il sequestro Moro purtroppo lo sappiamo tutti, i risvolti più nascosti di quel delitto restano invece avvolti nel più sordido mistero. Un’altro capitolo oscuro della lunga vita "professionale" di Carboni è quello che lo vede legato al faccendiere Francesco Pazienza.Quest’ultimo nell’autunno del 1980, grazie ad un’abile tessitura di rapporti occulti, costituì la società Ascofin, che in base alle testimonianza delle stesso Pazienza serviva "inizialmente da copertura delle mie in nome e per conto del Sismi". Solo "inizialmente" perchè poi "si tratterà essenzialmente di affari". Sulla piazza romana i maneggi affaristici di Pazienza procedevano a gonfie vele sopreattutto dopo che il vice-questore Pompò gli presente Flavio Carboni. Fra i due, nemmo a dirlo, si creò un’intesa immediata. Interessanti per capire gli sviluppi futuri del rapporto sono però le parole che Carboni disse al giudice istruttore di Roma: "Per come mi venne detto Pazienza era un uomo dalle molteplici attività e dalle notevoli entrature nei più svariati ambienti, così che non ebbi difficoltà a credere che si sarebbe assunto l’incarico di promuovere le mie attività all’estero, specialmente negli Stati Uniti. Ben presto, tuttavia, dovetti constatare l’inaffidabilità di Pazienza, interlocutore che sfuggiva alle richieste prendendo tempo e mancando a tutti gli appuntamenti che per me erano importanti". Parole dure a cui però non fecero seguito tracce oggettive nel momento in cui i due personaggi si ritrovarono alla corte del banchiere piduista Roberto Calvi, proprio nel momento in cui Carboni - a suo dire - vedeva sfumare un affare in Sardegna, dove la costituzione di una società con l’imprenditore Silvio Berlusconi per la realizzazione di un complesso edilizio fallì a causa del coinvolgimento di Berlusconi "nella vicenda relativa alla P2". Nel frattempo, però, Carboni (operando nell’ambito di "un programma d’acquisto, da parte mia ma per conto di Silvio Berlusconi, di una rete televisiva sarda") aveva anche allacciato buoni rapporti con Armando Corona, presidente della Regione Sardegna e massone di alto rango. Un nome, quello di Corona, che il faccendiere sardo annoterà sul proprio "diario privato", insieme ai "finaziatori" Enrico Nicoletti, Gino De Giorgi e Fausto Annibaldi, tutti e tre noti malavitosi. E, quasi a voler sancire in maniera quasi rituale con Pazienza, Carboni presentò al braccio destro del generale Santovito - capo del Sismi - e al sempre presente vice-questore Pompò la vecchia conoscenza Domenico Balducci. Queste le più eclatanti avventure di Flavio Carboni, a cui potremmo aggiungere mille altri episodi non ultimo quello riguardante i 750 milioni in buoni del Tesoro di provenienza illecita che Ernesto Diotallevi consegnò a Carboni in una busta nell’aprile 1982 nel tentativo di risollevare le sorti di un Calvi ormai prossimo al collasso. Ma la vita di carboni meriterebbe una biografia di almeno mille pagine. Pagine che potrebbe aiutare molti comuni mortali a capire i retroscena di una stagione politico-economico-criminale mai definitivamente chiusa. Ma anche intrecci che vedevano fianco a fianco massoni, spezzoni deviati dei servizi segreti, malavita organizzata ed eversione neofascista la cui eredità è giunta a noi tanto vivida e presenta quanto drammaticamente "silenziata". Un’altra avventura è finita, ma Flavio Carboni ha sette vite e di lui si tornerà a parlare ancora. Statene certi.
http://209.85.135.104/search?q=cache:74Lek-v0oNIJ:old.lapadania.com/1999/ottobre/14/141099p03a3.htm
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