11 ott 2006

L'omicidio dimenticato

A Roma è in corso il processo per l'assassinio di Roberto Calvi. I giornali se ne disinteressano, ma seguirlo può essere utile per capire l'Italia di ieri e quella di oggi, scrive Philip Willan.

Nel quasi totale silenzio dei mezzi di comunicazione, a Roma si sta svolgendo un processo importante per la storia d'Italia. È uno di quei procedimenti che meriterebbero la definizione di "processo del secolo": quattro uomini e una donna sono accusati dell'omicidio di Roberto Calvi, il "banchiere di Dio" e del potere secolare nell'Italia del dopoguerra.

Lo seguono le telecamere di Chi l'ha visto? e di Un giorno in pretura e ogni tanto fa un salto qualche collega delle agenzie. Ma sui giornali non si legge quasi niente. Si può anche capire: i fatti risalgono a ventiquattro anni fa e il pubblico si è stancato. Si rischia di scambiare una scoperta di due decenni fa per uno scoop giornalistico di oggi. Il ritmo del procedimento è lento, malgrado gli sforzi del presidente, ansioso di non perdere tempo.

Il ruolo del pubblico ministero somiglia un po' a quello del regista del Signore degli anelli, che ha girato il materiale per i tre episodi in ordine non cronologico, in un unico sforzo creativo. Dopodiché ha dovuto montare e rendere comprensibile il tutto. La stessa cosa succede nell'aula-bunker di Rebibbia, dove i testimoni ricreano le scene dell'epopea di Calvi in un ordine dettato casualmente dalle convocazioni. Si spera che alla fine la corte riesca a ricostruire un racconto su cui giudicare. La scarsa capacità comunicativa di qualche testimone e i vuoti di memoria di altri non aiutano; siamo infatti quasi ai limiti temporali per uno sforzo ricostruttivo di questo tipo.

Di recente sono venuti a testimoniare l'ex ministro degli interni Giuseppe Pisanu e il presidente del gruppo Espresso, Carlo Caracciolo. A entrambi è stato chiesto di parlare della loro amicizia con Flavio Carboni e di quello che Carboni raccontava su Roberto Calvi. Un aspetto curioso del processo è il modo in cui coinvolge tutti gli strati della società italiana. Carboni, per esempio, era socio in affari con l'allora imprenditore Silvio Berlusconi ma anche con gli usurai della banda della Magliana e, secondo l'accusa, con il gruppo mafioso di Pippo Calò, altro imputato del processo.

Anche il figlio di Calvi, Carlo, ha testimoniato nelle ultime settimane. Ha ricordato alla corte i rapporti del padre con Licio Gelli e Umberto Ortolani, esponenti di spicco della loggia P2.

Il padre era considerato inaffidabile dalla classe politica dell'epoca, ha spiegato il figlio, perché poteva essere indotto a rivelare fatti imbarazzanti per difendersi nel processo per reati valutari che stava per cominciare. E ha ricordato le minacce che il padre aveva ricevuto da Giulio Andreotti in persona. "Andreotti ha detto delle cose che lui ha interpretato come minacce di morte. Ma non so le parole precise", ha detto.

La corte ha anche sentito testimonianze sul ruolo della banca vaticana nel riciclaggio del denaro sporco della mafia e infinite disquisizioni su alleanze e guerre tra fazioni rivali della criminalità organizzata. Il processo richiede molta pazienza, ma offre un'occasione unica per chiarire un pezzo importante della storia di questo paese. Da Calvi siamo passati a Tangentopoli, da Mani pulite a Piedi puliti e ai "furbetti del quartierino" in una costante evoluzione della cultura dell'illecito "politico".

In un certo senso il povero Calvi era il "nonno" del sistema che vediamo manifestarsi – a volte in modo sofisticato e davvero ingegnoso – negli scandali attuali. Potrebbe essere interessante e utile capire come funzionavano le leve del potere occulto ai tempi del "banchiere di Dio" anche per capire meglio l'Italia di oggi.

TRATTO DA www.internazionale.it/home/primopiano.php?id=12819

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