La prima sentenza Il 20 settembre 1999 la corte d'Assise di Perugia (presidente Giancarlo Orzella, il solo togato, gli altri sei giudici popolari) entra in camera di consiglio: dopo 102 ore ne uscirà un verdetto di assoluzione per tutti gli imputati, per non aver commesso il fatto.
Ma come mai? Vediamola un po' più da vicino, questa sentenza, raccolta in ben 508 pagine cartacee (290 pagine web). Andreotti e Vitalone (assistito dall'avvocato Carlo Taormina, che nel processo alla mafia difende Totò Riina) sono indicati durante il corso del dibattimento, come mandanti dell'omicidio. Pippo Calò e Gaetano Badalamenti sarebbero l'anello intermedio fra i mandanti e gli esecutori, mentre Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati sarebbero i presunti esecutori.
Il fatto è che i giudici, pur intuendo che dietro l'omicidio ci sia un gruppo di potere, continuano ad avere “alcune perplessità” in relazione “alla fitta rete di rapporti politici sociale ed economici, palesi e occulti che legano i vari personaggi coinvolti nella vicenda ”.
Insomma, la catena costruita dall'accusa, avrebbe un anello debole: non ci sarebbe infatti la prova provata che ci siano stati rapporti tra Pippo Calò e Danilo Abbruciati, boss della Magliana, indicati come mandanti intermedi, negli anni del delitto Pecorelli. Così, tutta l'impalcatura crolla. Secondo l'accusa, infatti, Andreotti e il suo ex braccio destro Vitalone, attraverso Calò e Abbruciati e questi, attraverso i cugini Salvo e la mafia trasferita a Roma sarebbero i mandanti e gli esecutori del delitto, ma se uno degli anelli di questa catena non viene provato, tutta la costruzione non sta più in piedi.
Una costruzione davvero troppo macchinosa, invero! Perché ci deve essere bisogno di tutta questa gente, di tutti questi intermediari? Non è possibile invece che la realtà sia molto meno complicata e macchinosa e che ci siano molti meno passaggi? Il castello complicato e complesso, cadendo ha liberato gli accusati. E tuttavia a leggere bene quella sentenza di assoluzione le cose non vanno così lisce per gli imputati, sia pure prosciolti.
Scrive infatti il giudice estensore Nicola Rotunno, quando analizza i rapporti fra Vitalone e Enrico de Pedis della banda della Magliana “Essi sono uno schizzo di fango (per adoperare una espressione cara all'imputato) che rimarrà attaccato alla persona di Claudio Vitalone non trovando alcuna giustificazione, se non in rapporti a dir poco non chiari, che un magistrato della Repubblica Italiana, un senatore che ha rappresentato l'Italia all'estero, intrattenga rapporti con esponenti di spicco della malavita organizzata romana.” Evidentemente l'avvocato Taormina, quando si congratulava col suo assistito, davanti ai giornalisti, dopo la sentenza di assoluzione, non conosceva ancora questo passo. E nemmeno noi lettori sapevamo quello che scrivevano i giudici in quelle 508 pagine. Alcune delle quali direi molto dure nei confronti di Giulio Andreotti. Quelle che lo collegano ai cugini Nino e Ignazio Salvo e parlano della sua conoscenza personale con loro “… e che tale conoscenza permetteva, in via ipotetica, al primo di chiedere ai secondi l'uccisione del giornalista Carmine Pecorelli.”
Il tribunale di Perugia considera attendibili anche i pentiti e riscatta la figura del Pecorelli, che non sarebbe stato un ricattatore, ma un giornalista vero. E il movente dell'omicidio? Sarebbe da rintracciarsi in 5 filoni della recente storia italiana “Il golpe Borghese, la vicenda Italcasse, il fallimento delle Banche Sindona, il dossier Mi.Fo.Biali, il caso Moro” cinque filoni, cinque strade dice la sentenza “che portano oggettivamente alla sfera di interessi di Giulio Andreotti e parzialmente anche a quella di Claudio Vitalone e Giuseppe Calò…”. (Ma il compagno Fassino era a conoscenza di queste cose, quando l'altra sera difendeva a spada tratta l'estraneità del senatore Andreotti a qualsiasi vicenda oscura?)
Un processo che lascerà il segno e che coinvolge un po' tutto l' establishment politico attuale. Ma i pentiti della Magliana non si accontentano di questo processo: entrano un po' dappertutto, sempre in accoppiata con Cosa Nostra, trascinandosi appresso un bel po' di gente. Infatti, in quello di Palermo contro Marcello Dell'Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa, tirano in ballo anche Berlusconi: lo riporta con evidenza La Padania del 7 luglio 1998, intitolando l'articolo “Silvio riciclava i soldi della mafia” (http://www.lapadania.com/index2.htm). Ad accusare il cavaliere sarebbe Antonio Mancini, ex componente della banda della Magliana “I soldi della banda della Magliana e quelli della Mafia siciliana sono stati dati a Silvio Berlusconi per finanziare la speculazione edilizia in Sardegna” . Prosegue poi l'articolo della Padania: “Mancini ha parlato dei rapporti che esistevano fra la banda della Magliana e boss come Pippo Calò e Stefano Bontade. <>…”
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